Ebbene si, Silvia Zia giovanissima ricercatrice di cellule staminali dopo un lungo periodo di studio e ricerca all’estero, ha scelto di tornare in Italia per lavorare all’interno di un’innovativa startup. Andiamo a conoscerla!
Silvia quando è iniziato il tuo percorso nella biologia?
«Dopo la maturità scientifica, mi sono iscritta al corso di Laurea triennale in Biotecnologie Sanitarie all’Università di Padova. Prima di iscrivermi al corso Magistrale, ho voluto toccare con mano il campo della ricerca svolgendo un periodo di stage al CRO di Aviano. Dopo aver chiarito dubbi personali grazie a prospettive concrete, ho deciso di approfondire gli studi iscrivendomi al corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche, sempre all’interno dell’Università di Padova.»
Quando hai iniziato ad approfondire gli utilizzi delle cellule staminali?
«Per la stesura del lavoro di tesi, ho deciso di svolgere un periodo di ricerca di nove mesi presso l’Institute of Child Health dell’University College of London (UCL) – nel laboratorio del Prof. De Coppi – in cui ho approfondito gli utilizzi terapeutici delle cellule staminali da liquido amniotico e l’ingegneria tissutale. Ricordo questa mia prima esperienza all’estero con grande piacere per gli stimoli quanto professionali tanto personali; come le piccole azioni quotidiane influenzassero la mia crescita culturale in laboratorio e vice versa. Ho capito l’importanza professionale di avere colleghi provenienti da tutto il mondo, i quali mi hanno insegnato a guardare un problema da varie prospettive. E inoltre, come la possibilità di lavorare con persone provenienti da diverse università europee e internazionali, sicuramente abbia favorito scambi di idee e creato collaborazioni proficue.»
Dopo Londra?
«A poco a poco ho sempre più sentito l’esigenza di approfondire le mie conoscenze nel campo della medicina rigenerativa, per cui ho scelto di intraprendere un dottorato di ricerca all’Università di Leuven (Belgio) all’interno del gruppo gestito dal Professor Deprest. Tale gruppo di ricerca era formato da diversi clinici che mi hanno insegnato l’importanza della medicina traslazionale (una ricerca bidirezionale in cui la ricerca di base e clinica interagiscono tra loro).»
Cosa ti ha lasciato il dottorato di ricerca?
«Il dottorato è stato un percorso altamente formativo in cui discussioni e brain storming erano all’ordine del giorno; confronti e scambi che via via hanno rafforzato e migliorato la ricerca in cui eravamo impegnati. Gradualmente ho maturato l’idea che una efficace ricerca dovesse essere sempre più legata all’avanzamento tecnologico complessivo per cui, finito il dottorato, ho focalizzato la mia ricerca lavorativa in un contesto che potesse coniugare la ricerca accademica alla progettazione aziendale. Per mantenere il rapporto quanto più diretto con gli “inventori” (quelli che identifico come gli artefici delle nuove scoperte brevettate), al posto di cercare un lavoro in una grande azienda biotech, ho preferito guardare al mondo delle startup e delle piccole imprese.»
Perché hai scelto di tornare in Italia a fare ricerca?
«L’importanza di tale trasferimento tecnologico dalle/alle startup nasce dall’ambiente scientifico internazionale in cui ho vissuto. Vedendo che anche l’Italia è interessata da tale tendenza che va consolidandosi di anno in anno, ho deciso di ritornare grazie all’offerta lavorativa di Stem Sel. Fin da subito, ho capito la forza progettuale di questa startup: creare e perfezionare una macchina che permetta di analizzare e separare cellule staminali solamente grazie alle loro caratteristiche fisiche, senza l’utilizzo di anticorpi.»
Giugno periodo di maturità e scelte universitarie, quale consiglio daresti ai giovanissimi che si trovano oggi a compiere una scelta così importane?
«Rivedendo la mia personale evoluzione da studentessa a professionista, oggi penso che la scelta del percorso universitario dovrebbe tener conto delle proprie passioni e attitudini e non seguire la sola logica dello sbocco professionale. L’aver scelto una materia scientifica, la biologia nel mio caso, non vuol dire escludere la componente creativa che si associa a lavori prettamente artistici. Capire il funzionamento del nostro corpo, ossia capire come l’insieme di tutte le cellule riescano a lavorare all’unisono creando una macchina perfettamente funzionante: è arte. In quanto arte, il biologo è un artigiano che per sopperire alle mancanze tecnico-strumentali si deve ingegnare ad inventare strumenti sempre più innovativi ed efficaci per progredire nello studio della biologia stessa ovvero, la scienza della vita.»
Grazie Silvia!
Gloria Chiocci