Benedetta Arese Lucini ha 35 anni e attualmente vive a Londra. La sua è una storia di impegno e passione, di valigie sempre pronte e di incontri che le hanno cambiato la vita. Nonostante l’agenda sempre piena, qualche mattina fa ci siamo sentite e come se fossimo a Covent Garden, davanti a una tazza di tè, mi ha raccontato la sua storia partendo dai banchi di scuola fino a diventare general manager e imprenditrice.
Benedetta da dove inizia la tua storia?
«La mia storia inizia tanto tempo fa, ho la fortuna di essere figlia di un imprenditore. Ricordo esattamente il momento in cui ho capito cosa desideravo diventare da grande. Avevo 12 anni e mi trovavo nell’ufficio di papà, aveva uno dei primi computer sulla sua scrivania e una sedia a rotelle, una di quelle che girano. Ogni volta che andavo e mi sedevo lì sentivo che quello era il mio posto, ero innamorata dell’idea di essere come mio padre, anche se ancora non sapevo cosa volesse dire. Su quella sedia con le rotelle è cominciata la mia storia e la mia ambizione.
Sono figlia anche di una mamma che ha cresciuto me e le mie due sorelle con l’ambizione di essere un pò femministe. Ci ha insegnato a credere nei nostri progetti e nelle nostre idee. Mia madre è sempre stata un punto di riferimento, ci ha insegnato fin da piccole la matematica ma soprattutto ci ha trasmesso il coraggio di credere in noi stesse e nelle nostre ambizioni. Grazie a lei tutte e tre lavoriamo nel mondo della scienza, della matematica e dell’economia.»
Qual’è stato il tuo percorso formativo?
«Devo dire che sono stata molto fortunata, ho studiato alla scuola inglese pur crescendo in Italia. Già dalla scuola ho avuto modo di entrare a contatto con diverse culture. Durante le estati mio padre ci mandava in America da dei suoi colleghi, per permetterci di vivere – per un periodo – all’interno di una cultura differente. E’ per questo che sono sempre stata affascinata dall’American Dream.»
Gli studi?
«Crescendo ho deciso di studiare economia alla Bocconi. Mi piacevano i numeri e desideravo lavorare con essi. Iniziai con un primo stage nel 2005 presso Morgan Stanley e nel trading floor ero una delle uniche donne. In quel momento capì che avrei dovuto lavorare sodo per crearmi un posto all’interno di quel mondo estremamente maschilista. Ho però trovato un mentore che è stato la mia fortuna – con cui sono in contatto tuttora – perché mi ha permesso di crescere all’interno della banca per cui stavo lavorando. Ho continuato a lavorarci per due anni e mezzo, me ne sono andata giusto due settimane prima che crollasse Lehman Brothers.
Era il 2008 e l’immagine che dagli uffici della city uscivano persone con in mano scatoloni pieni dei loro oggetti personali appena licenziate, ma ha profondamente toccata. Li ho preso consapevolezza di cosa stesse succedendo veramente e mi sono accorta che anche se facevo parte di questo mondo non avevo capito tutto quello che c’era di sbagliato. Quello per me è stato un momento di forte cambiamento.»
Perché hai deciso di continuare a studiare?
«Già un anno e mezzo prima della crisi, avevo applicato per il Master in Business (MBA) perché desideravo andare a vivere a New York. Dopo aver vissuto la crisi finanziaria da vicino, ho capito che desideravo fare qualcos’altro nella vita. Sognavo di lavorare all’interno di una realtà più piccola dove i giovani con le loro idee e la loro voce potevano cambiare il mondo.
La NYU è una scuola molto focalizzata sulla finanza, e ogni giorno entravo e mi confrontavo con una classe di coetanei che desiderava lavorare in finanza. Fortunatamente esisteva già un programma di specialistica sull’imprenditoria a cui ho partecipato immediatamente.»
Da dove nasce il desiderio di lavorare in una startup?
«La cultura della startup americana – trasmessa anche da mio padre – mi affascinava anche se in Europa non esisteva stava solo nascendo. Nel 2008 ero l’unica tra i miei amici a parlare di questo mondo, non era una considerata una carriera al di fuori della Silicon Valley.
Terminato l’MBA cercai un lavoro a New York ma non ottenni il visto. Attraversai un periodo difficilissimo della mia vita e decisi di trasferirmi a San Francisco. Li trovai lavoro – compromettendo il mio desiderio di lavorare in una piccola startup – andai a lavorare per una grossa banca. Presi questo lavoro come un’opportunità per affacciarmi sulla Silicon Valley. Iniziai a conoscere tanti fondatori di startup che allora erano piccolissime ed ora sono colossi.»
La Malesia?
«Era un periodo in cui stavo tentando di entrare a lavorare in una di queste startup, quando andai a un evento dove parlava Oliver Samwer, fondatore di Rocket Internet. In quel periodo stava cercando nuove figure da assumere all’interno delle sue aziende. Al termine dell’incontro mi propose di candidarmi per lavorare in una delle sue aziende, e dopo una fase di selezione mi assunsero. Inizialmente sarei dovuta andare a lavorare in Australia ma tre giorni prima della partenza mi proposero di andare ad avviare un e-commerce in Malesia. Accettai e partì. Lavorai in Asia all’incirca un anno, e nel mentre fondai anche una startup con dei colleghi.»
Quando sei approdata a Uber?
«Ero in Italia per natale e una mia amica mi aveva detto che Uber da lì a poco sarebbe approdato in Italia. Senza dirmi nulla inviò il mio CV a Uber, che nel frattempo aveva appena assunto il primo recruter per l’Europa. Mi chiamarono e feci il colloquio, avendo vissuto negli Stati Uniti già sapevo di cosa si occupassero. All’inizio devo ammetterlo ero alquanto scettica, non desideravo tornare a lavorare in Italia ma poi conobbi Travis Kalanick e mi innamorai della visione da leader che trasmetteva e decisi di accettare l’incarico.»
Oval Money, quando arriva?
«Terminata l’esperienza in Uber, stavo cercando un nuovo progetto a cui dedicarmi. Un giorno Edoardo Benedetto e Claudio Bedino – che già avevano una startup che si occupava di crowdfunding – mi parlarono della loro idea: democratizzare la possibilità di fare investimento. In quel periodo desideravo dedicarmi a un progetto con un impatto sociale alto, dove la tecnologia e i dati formavano il cuore del progetto. Mi appassionai all’idea e cosi cominciammo l’avventura!»
Un messaggio che desideri lasciare ai giovani?
«Nessun sogno è troppo irraggiungibile! Bisogna sempre sognare in grande! Più razionalmente direi, il primo lavoro che svolgete non sarà la vostra ultima destinazione. Lavorate ogni giorno, passo dopo passo a costruire il vostro sogno. Io continuo ad avere sogni nuovi che non si sono ancora avverati, ma lavoro ogni giorno per far si che si possa realizzare!»
Grazie Benedetta!
Gloria Chiocci