Federica giovane ricercatrice sui primi segni dell’Alzheimer:” La ricerca scientifica in ogni campo è strettamente connessa all’innovazione”

Federica Cacciamani, 29 anni è  originaria di Gubbio ed è una ricercatrice e dottoranda in neuroscienze al Paris Brain Institute, una delle realtà europee più all’avanguardia sull’innovazione neuroscentifica. Oggi vi racconto la storia di Federica che rappresenta la passione, il talento e l’entusiasmo di tanti giovani ricercatori e innovatori.

Federica hai da poco ricevuto i premi “Giovane Ricercatore 2020” dalla Fondazione Thérèse et René Planiol, e “Giovane Ricercatore 2021” dalla Fondazione Treilles per le ricerche in ambito Alzheimer quale percorso di studi e di vita ti ha condotto verso questo riconoscimento?

«Si tratta di due fondazioni francesi che finanziano la ricerca scientifica e che ogni anno mettono in valore ricercatori promettenti di meno di 35 anni. Nel 2020 e nel 2021 mi hanno premiata per le mie ricerche sui primi segni della malattia di Alzheimer, e questi premi sono indubbiamente un bel incoraggiamento a proseguire nella mia attività con entusiasmo.

Il mio percorso è stato piuttosto atipico. Ho mosso i primi passi nel mondo della ricerca da giovanissima, quando la mia professoressa di neurologia, la Dott.ssa Lucilla Parnetti, mi ha dato l’opportunità di collaborare con la sua équipe. A 25 anni, prima ancora di cominciare il dottorato, avevo già due pubblicazioni a primo nome, quasi tre anni di esperienza e le idee molto chiare su quali fossero i miei interessi di ricerca.

In questi anni, mi sono costruita un percorso poco convenzionale ma che rispecchiava esattamente quello che volevo fare. Diverse opportunità sia professionali che formative mi hanno portata in Italia e all’estero in centri clinici e di ricerca di eccellenza. Sono arrivata a Parigi nel 2016 dopo aver vinto una borsa per svolgere una ricerca all’estero. Avevo contattato il Prof. Bruno Dubois, che è uno dei massimi esperti della malattia di Alzheimer. Mi sono semplicemente presentata ed ho chiesto se potevo unirmi a loro per alcuni mesi. Mi sono fermata otto mesi e poi ci sono ritornata per ottenere il dottorato di ricerca. Sono molto orgogliosa di come queste esperienze che ho potuto fare negli anni mi abbiano guidata verso temi di ricerca rilevanti e importanti.»

Ricerca e innovazione, come questi ambiti si uniscono nello studio delle neuroscienze?

«La ricerca scientifica in ogni campo è strettamente connessa all’innovazione. Da una parte, l’innovazione, tecnologica ma non solo, permette il progresso della scienza. Aloïs Alzheimer, ad esempio, ha descritto un secolo fa i meccanismi patologici della malattia che porterà il suo nome. Ma questo gli è stato possibile grazie all’impregnazione argentica, una tecnica all’epoca innovativa per la colorazione degli elementi cellulari. In seguito, i progressi compiuti nella diagnostica per immagini ci hanno permesso di capire meglio cosa succede ad un cervello affetto dalla malattia di Alzheimer. Oppure, le mie stesse ricerche si basano su innovativi metodi di intelligenza artificiale applicati all’analisi di dati.
Dall’altra parte, la ricerca permette di innovare. La creatività di cui danno prova i ricercatori permette di inventare o scoprire – ad esempio, nuovi trattamenti, dispositivi medici, servizi, percorsi di cura, ecc. – e poi far sì che tali invenzioni o scoperte siano accessibili e fruibili ad un più vasto pubblico. Le conoscenze che accumuliamo su queste malattie stanno trasformando il modo in cui le consideriamo. Se in passato la cosiddetta “demenza senile” veniva minimizzata e considerata una parte normale dell’invecchiamento, oggi sappiamo che si tratta di una condizione patologica che possiamo in una certa misura gestire e prevenire. La malattia è stata ridefinita negli ultimi 20 anni, stravolgendo il modo di diagnosticarla e curarla.»

Fai parte di quella fetta di giovani ricercatori che si trovano all’estero, i cosiddetti “cervelli in fuga” cosa consigli a tutti quei giovani che desiderano intraprendere la strada della ricerca?

«Non mi definirei un cervello in fuga, perché questo implica essenzialmente due cose: l’idea di fuggire (nella sua accezione più negativa) per trovare condizioni migliori altrove, e l’idea di privare l’Italia di capitale umano a beneficio di un altro paese.

Io non mi rispecchio in nessuno di questi due concetti. La mia scelta non è stata obbligata, l’Italia non è stata incapace di “trattenermi”. Ho rifiutato un posto che mi era stato offerto e sono partita, perché i confini nazionali non devono limitare la comunicazione e la condivisione di conoscenze e di tecniche tra ricercatori. Parigi ha una storia particolarmente ricca nel settore delle neuroscienze. L’ospedale in cui lavoro, il Pitié-Salpêtrière, è noto come il tempio della neurologia, frequentato da sempre da medici e scienziati illustri. Numerose tecniche che utilizzo nella mia pratica clinica sono state sviluppate in questo contesto. Sono partita per la Francia con la consapevolezza di trovare un ambiente particolarmente stimolante e dinamico, di altissima qualità scientifica e clinica.

Il mio scopo in quanto ricercatrice è migliorare la nostra comprensione di queste malattie al fine ultimo di poterle curare o, meglio, prevenire. Per riuscirci, bisogna incoraggiare ogni occasione di scambio, che può essere un soggiorno in un altro laboratorio, le conferenze, le collaborazioni o l’organizzazione di eventi scientifici. La mobilità nazionale e internazionale permette la circolazione delle idee, che è parte integrante della ricerca scientifica. La strada della ricerca può essere spinosa, soprattutto perché i finanziamenti sono limitati. Questo è vero in ogni paese, anche se è innegabile che in alcuni paesi gli investimenti nella ricerca e sviluppo sono più ingenti che in altri. Ma questo non dovrebbe scoraggiare. Un giovane che vuole intraprendere la strada della ricerca deve sapere che è possibile riuscire a realizzarsi. La buona ricerca scientifica, quella che risponde ad esigenze concrete e che viene fatta con rigore, viene riconosciuta e finanziata. E partire all’estero, che sia per un periodo o definitivamente, non dovrebbe essere vissuto come una sconfitta, ma al contrario è opportunità preziosissima

Grazie Federica!

Gloria Chiocci